martedì 21 agosto 2018

Meeting di Rimini, seconda giornata



Ieri, lunedì 20 agosto, abbiamo seguito l'incontro dal titolo: " Da Giobbe all’Olocausto, quando l’uomo e la storia fanno i conti con il dolore".

C’è un ospite antico, ma sempre nuovo ed attuale, che riempie gli spazi della Fiera e interpella anche i più distratti visitatori. È l’antico patriarca Giobbe, colui che “sopporta le avversità”, a cui il Meeting ha dedicato una bella mostra e che nel pomeriggio ha tenuto incollate a schermi e sedie, per due ore, migliaia di persone. A compiere questo vero e proprio miracolo estivo, lo ha aiutato bella compagnia di giovani attori e musicisti (Massimo, Paolo, Mirna, Yazan) che si sono inseriti con brani musicali, versetti biblici e testi letterari (da Montale a Luzi e Caproni, da Wiesel a Chesterton, passando per Yossi Rakover), fra gli eccezionali interventi-testimonianza dei tre ospiti: Julián Carrón, presidente della di Fraternità di Comunione e Liberazione; Mario Melazzini, direttore di Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco; Salvatore Natoli, filosofo, già ordinario di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Milano.

Monica Maggioni, giornalista Rai, ha tenuto le fila di un viaggio nel dolore umano, dalle sventure di questo uomo “della terra di Uz” fino alle grandi tragedie del Novecento, l’Olocausto innanzitutto. Un viaggio alla ricerca del “perché” del dolore e del male del mondo, dell’atteggiamento degli uomini e della loro responsabilità, della risposta che a questo male, a questo dolore gli uomini sono stati capaci di dare. Fino alle conclusioni presentate dagli ospiti. Carrón e Melazzini hanno parlato della vicinanza di un Dio che esiste e che può aiutare in tutto. “Un Dio verso il quale – ha affermato Carrón – in Giobbe come in Gesù e in tanti altri cristiani non ha vinto il sospetto, ma la familiarità nata da una esperienza di amore e di bene sperimentata nel tempo”. Il laico Natoli non è arrivato a tanto. Al termine dell’incontro, si è richiamato ai discepoli di Emmaus, che non avevano riconosciuto Gesù risorto: “Ma siccome si faceva sera, gli chiesero di restare con loro e lo riconobbero quando spezzò il pane: per un laico come me non c’è altro modo di esperire Dio”.

Giobbe aveva tutto quello che un ebreo giusto poteva desiderare come premio per il suo rispetto della Legge: dieci figli, migliaia di capi di bestiame, amici, una vita agiata. Su di lui si gioca una partita tra Dio e Satana, con il demonio che chiede il permesso di metterlo alla prova, per vedere se Giobbe ama Dio solo perché Dio è stato generoso con lui. “Ma alla fine – commenta il professor Natoli – Giobbe dimostrerà che Dio si deve amare per niente, per un’esperienza di assoluto amore. Giobbe si rivolge a Dio dicendogli: ‘io nonostante tutto non voglio perderti’”.

“Fino al Settecento, nell’esperienza del dolore, l’uomo rivolgeva una domanda a Dio, del cui amore continuava ad avere esperienza e memoria – ha spiegato Carrón –. Poi qualcosa si è rotto ed il pen-siero moderno parte dal dolore per mettere alla prova l’esistenza di Dio. Manca l’interlocutore e non c’è più una domanda”. Si torna – come ha ricordato il professor Natoli – al dolore degli antichi greci, inteso come fatto di natura, non posto in termini di giustizia, al modo degli ebrei, che per questo interpellavano Dio.
L’altro scenario del dolore umano, delle domande e delle risposte contrastanti tra loro, è l’Olocausto, la distruzione degli ebrei. Davanti alla mezz’ora di agonia di un bambino, impiccato ad Auschwitz per rappresaglia, Eli Wiesel scrisse di aver smesso di pregare e a chi gli chiedeva dove fosse Dio in quel momento, rispondeva che Dio era lì, in quel bambino appeso ad una forca. E Yossi Rakover, ebreo del ghetto di Varsavia, vicino alla fine, disse a Dio che sarebbe morto come aveva sempre vissuto, in una fede eterna in lui. Carrón ha voluto ricordare il Diario di Etty Hillesum, scritto fra il ’41 e il ’43, anno della sua morte, dove la giovane ebrea nella disperazione che è intorno a sè dice: “Sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno – ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c’è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine”.

Ma Dio, davanti alla Shoa, non poteva fare niente? “No – ha risposto Natoli – per intervenire sul do-lore inflitto dall’uomo ad un altro uomo, Dio dovrebbe togliere la libertà all’uomo stesso. Noi siamo responsabili del male che facciamo”. “Lo scandalo del male è lo scandalo della libertà – ha aggiunto Carrón –. Noi vorremmo un mondo senza libertà, ma Dio non preferisce un’obbedienza meccanica, vuole persone con cui stabilire un rapporto di libertà. Il dolore sfida la ragione e la libertà, la capacità dell’uomo di stare davanti a tutta la tà”.

Al dottor Melazzini, sessant’anni, malato di Sla dal 2003, il compito di testimoniare la sua esperienza di Giobbe del XXI secolo. Aveva tutto, fama e successo professionale; si considerava “un uomo fortunato”. Finché non è arrivata la diagnosi spietata della malattia inesorabile, capitata proprio a lui che aveva speso la vita per far del bene e salvare quella degli altri. Cominciò a rinchiudersi in sé, a lasciare quasi tutti gli amici, isolarsi fino a decidere di farla finita (aveva anche preso contatti con una clinica svizzera specializzata). Poi un amico gesuita che gli regalò la Bibbia con un segnalibro all’inizio del libro di Giobbe, le parole di Madre Teresa e la lenta consapevolzza che la malattia fa parte della vita, non come una punizione, bensì “come un valore aggiunto. Perché prima Ti conoscevo per sentito dire, ora Ti ho incontrato”. “In ognuno di noi c’è Giobbe – ha concluso Melazzini –. Poniamoci domande e aspettiamo la risposta di un Dio che c’è e può aiutare in tutto”.

Da Giobbe a Gesù, “ma non per concludere un discorso teorico – ha avvertito la Maggioni – ma per dare una prospettiva, offrire una possibilità da verificare esistenzialmente”. “L’imponente presenza che Dio rivela a Giobbe è solo l’inizio – ha approfondito Carrón –. Quella presenza, che aveva fatto ogni cosa, doveva evolversi fino a diventare carne in Cristo. Il rapporto di Gesù con il Padre era così potente che il male non è riuscito a scalfirlo, neanche quando quel calice non è passato oltre. Gesù ha sofferto come noi, Dio non gli ha risparmiato nulla, ma lui non se n’è staccato, e così “può accompagnarci nel nostro percorso umano”.

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