domenica 23 dicembre 2018

Via San Gregorio Armeno - Napoli!



Via San Gregorio Armeno è una strada del centro storico di Napoli, celebre turisticamente per le botteghe artigiane di presepi.

La tradizione presepiale di San Gregorio Armeno ha un'origine remota: nella strada in epoca classica esisteva un tempio dedicato a Cerere, alla quale i cittadini offrivano come ex voto delle piccole statuine di terracotta, fabbricate nelle botteghe vicine. La nascita del presepe napoletano è naturalmente molto più tarda e risale alla fine del Settecento.

Oggi via San Gregorio Armeno è nota in tutto il mondo come il centro espositivo delle botteghe artigianali qui ubicate che ormai tutto l'anno realizzano statuine per i presepi, sia canoniche che originali (solitamente ogni anno gli artigiani più eccentrici realizzano statuine con fattezze di personaggi di stringente attualità che magari si sono distinti in positivo o in negativo durante l'anno).

Le esposizioni vere e proprie cominciano nel periodo attorno alle festività natalizie, solitamente dagli inizi di novembre al 6 gennaio.

Tipica di via San Gregorio Armeno è il sontuoso campanile dell'omonima chiesa che si affaccia sulla strada, il quale si innalza sopra il livello della stessa. Il campanile funge da cavalcavia di connessione tra i due conventi (chiesa e monastero) dedicate a San Gregorio Armeno.

Infine, lungo la strada (salendo dal decumano inferiore a quello maggiore), vi sono prima la chiesa di San Gregorio Armeno, edificata intorno al X secolo, e poi, poco più sopra, con ingresso separato rispetto all'edificio religioso, il relativo chiostro.


mercoledì 24 ottobre 2018

Certosa di Pisa



La Certosa di Pisa si trova in provincia di Pisa, nel comune di Calci, in una zona pianeggiante alle pendici dei monti pisani chiamata "Val Graziosa". Ex monastero certosino, ospita attualmente il Museo di storia naturale dell'Università di Pisa.

La Certosa dista circa 10 km dalla città di Pisa e un tempo rientrava nel comune della città. L'aspetto attuale ha forme barocche ed è composta da un grande cortile interno subito dopo l'ingresso, dedicato alla vita comune e punto di incontro con il mondo esterno, mentre oltre gli edifici che circondano il cortile sono disposte le celle, gli orti e gli ambienti più riservati e tranquilli, adatti alla regola di vita certosina.

Fu per decisione dell'arcivescovo di Pisa Francesco Moricotti che il 30 maggio del 1366 venne fondata la Certosa, nella Val Graziosa di Calci.

Il convento assunse in seguito un'importanza anche politica, in particolare dopo l'annessione dell'antico monastero benedettino dell'isola di Gorgona, avvenuta nel 1425. Nella seconda metà del XV secolo, artisti fiorentini si stabilirono a Pisa per assolvere a lavori dell'Opera del Duomo. Ma è soprattutto tra Seicento e Settecento che vengono compiuti i lavori più importanti.

Si accede al complesso attraverso un vestibolo seicentesco, coronato dalla statua di San Bruno, il fondatore dell'Ordine dei Certosini; a destra si apre la cappella di Sebastiano, in origine riservata alle donne, e a sinistra la foresteria delle donne, attuale biglietteria.

L'ampia corte d'onore longitudinale introduce al santuario. Di fronte all'ingresso è il prospetto barocco della chiesa, impostata su un podio con scalinata a doppia rampa, opera dell'architetto Nicola Stassi: da notare, sulla sommità, la statua della Vergine in gloria.

L'interno, risalente al XVII secolo, è costituito da un'unica aula lungo le cui pareti sono addossati gli stalli lignei destinati ai monaci; una parete intarsiata a marmi policromi separa la zona destinata ai conversi. Sullo scorcio del Seicento inizia la decorazione pittorica parietale con le Storie del Vecchio Testamento, dei bolognesi Antonio e Giuseppe Rolli; gli affreschi della cupola sono del lucchese Stefano Cassiani, autore anche delle pitture ai lati, dietro l'altare e tra le finestre.

L'altare maggiore fu realizzato su disegno di Giovan Francesco Bergamini e terminato nel 1686 dal figlio Alessandro; vi si trova una tela di Baldassarre Franceschini detto il Volterrano, con San Bruno che offre la Certosa di Pisa alla Madonna, del 1681.

Dalla chiesa si accede alla sagrestia circondata da grandi armadi a muro, alla cappella delle Reliquie e alle varie cappelle, in cui ogni monaco celebrava la messa privata quotidiana; nella cappella di San Ranieri si conserva il dipinto settecentesco del pisano Giovan Battista Tempesti, con San Ranieri, patrono di Pisa; nella cappella di San Bruno troviamo una tela raffigurante il santo, di Jacopo Vignali; la cappella della Vergine del Rosario fu invece affrescata da Giuseppe Maria Terreni alla fine del Settecento.

Tra gli ambienti più interessanti del monastero, la Foresteria Granducale, così detta perché riservata ai sovrani di Toscana, con pregevoli stucchi del Somazzi e affreschi a figure allegoriche di Pietro Giarrè. Il refettorio attuale è il risultato della trasformazione del primitivo ambiente trecentesco: tra le testimonianze più antiche, l'affresco con l'Ultima Cena, di Bernardino Poccetti (1597), mentre il resto delle decorazioni parietali, compiute nel 1773, si deve a Pietro Giarrè. Sul seicentesco chiostro grande, con al centro la monumentale fontana ottagona, si aprono le celle dei monaci, ciascuna concepita come unità abitativa composta da più stanze.

Tra i numerosi ambienti del monastero ricordiamo l'appartamento del Priore, la ricca Biblioteca, l'Archivio storico e la farmacia. Nella foresteria è stata allestita la Quadreria del convento, che ospita numerosi e pregevoli dipinti, tra cui la collezione della famiglia Borghini di Calci.

L'ala ovest della Certosa ospita il Museo di storia naturale e del territorio dell'Università di Pisa.

Per informazioni: Certosa di Pisa

giovedì 30 agosto 2018

Meeting di Rimini - comunicato finale



Il Meeting 2018 in tre brevi affermazioni. «Cosa ho visto a Rimini? Visitando la mostra su papa Francesco ho pianto di commozione tutto il tempo, e poi mi è successo lo stesso con quelle dedicate a Brunelleschi e a Giobbe». Parole di un intellettuale europeo, uno degli esponenti di punta dell’architettura contemporanea, Alberto Campo Baeza. «Essere felici è essere abbracciati» ha detto la giovane scrittrice argentina Veronica Cantero Burroni, nel corso di una testimonianza che ha lasciato il segno sul Meeting di quest’anno. L’ultima è la testimonianza di un giovane visitatore. «Il Meeting? Per me era il male assoluto. Oggi che l’ho visitato ho capito quanto sono stato stupido a non esserci mai stato. Il Meeting è un’esperienza, va vissuto, di qualsiasi pensiero, nazionalità, religione voi siate».

Tre esperienze in apparenza fragili e non rilevanti: la commozione di fronte alla bellezza, la felicità come abbraccio, lo scoprire se stessi nell’incontro con l’altro. Il Meeting nel 2018 fin dalla scelta del titolo ha scommesso sull’unico fattore che muove davvero la storia in modo positivo e duraturo, la persona. «Attenzione, non contrapponendo la felicità individuale a un mondo cattivo e ostile», spiega la presidente della Fondazione Meeting Emilia Guarnieri, «ma evidenziando una quantità impressionante di esperienze di realizzazione umana e costruzione sociale, nelle favelas di Salvador de Bahia come nella ricerca sulle cure palliative, nel pensare l’innovazione al di là della sola tecnologia o nel raccontare con occhi nuovi L’infinito di Leopardi».

«Non c’è formula o algoritmo che tenga», aggiunge Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, «per contrastare il declino occorre puntare sulla persona, dare spazio al racconto di chi diventa imprenditore di se stesso anche nella ricerca del lavoro, favorire il dialogo tra persone di diversa religione, cultura, orientamento politico, come avvenuto con l’Intergruppo per la Sussidiarietà. Otto giorni di Meeting dimostrano che tutto questo è pratica vissuta e contributo reale alla vita del Paese, non utopia. Non a caso l’edizione di quest’anno ha rappresentato il segnale della ripartenza dopo la tragedia di Genova, attraverso la presenza del presidente Toti, del sindaco Bucci, dei parlamentari, ma anche il momento di una riflessione organica su quanto accaduto, con le voci del Porto di Genova, dei terminalisti, di RFI e con i convegni sulle grandi opere e il rapporto fra infrastrutture e mobilità».

Il Meeting 2018 si era aperto con il messaggio di Papa Francesco e del presidente Sergio Mattarella, i quali, ciascuno dalla propria prospettiva, hanno ripreso il titolo della manifestazione. Papa Francesco in particolare ha sottolineato l’assonanza con l’esperienza di san Benedetto da Norcia: «Mentre nuovi popoli premevano sui confini dell’antico Impero», ci ha scritto, «un giovane fece riecheggiare la voce del Salmista: “Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?». Il presidente Mattarella dal canto suo ha parlato della necessità dello spirito di pace e amicizia proprio del Meeting: «È dalla consapevolezza che ciascuno, con il suo credo e le sue convinzioni, arricchisce il nostro essere persona», ha scritto il Capo dello Stato, «che nasce la possibilità di rendere davvero umano il mondo».

Il “la” è stato dato poi dall’intervento inaugurale del nunzio negli Usa Christophe Pierre, quando ha ricordato che «La vera rivoluzione è la rivoluzione del cuore. Non possiamo costringere nessuno a credere, soprattutto non i giovani», perché la fede è una vita nuova che si comunica per grazia, e quindi solo «attraverso la testimonianza della nostra vita». È stato anche il Meeting di Giobbe, l’uomo che non vuole sfuggire alle domande drammatiche della vita, a cui sono stati dedicati la principale mostra e un grande incontro.

Quanto alle cifre, la XXXIX edizione mostra che il Meeting, nella sua formula rinnovata che ha scommesso su aree e spazi tematici, si consolida anche nei numeri. Foltissime la presenze (ne fa fede il numero di scontrini della ristorazione, superiore del 5% rispetto al 2017), il fundraising che tocca un nuovo record con 120mila euro di raccolta (centomila l’anno scorso), e naturalmente i 234 incontri (quasi raddoppiati i 118 dell’anno scorso) con 528 relatori (327 nella scorsa edizione), le 14 esposizioni, i 18 spettacoli, le 32 manifestazioni sportive. Il tutto in 130mila metri quadrati di Fiera (21mila dedicati alla ristorazione), con l’apporto di 2.927 volontari, il vero cuore pulsante della kermesse che ne mostra l’aspetto di gratuità. Quanto al capitolo costi, il Meeting 2018, che percepisce scarsissimi contributi pubblici, ha un budget di 5 milioni 972mila euro, le entrate principali sono i servizi di comunicazione per le aziende (3 milioni 550mila euro) e gli introiti dalla ristorazione (1 milione 104mila).

E così, accompagnando e vivendo da tanti anni l’evoluzione e il travaglio del Paese, il Meeting si avvia a concludere il quarto decennio della sua storia. Il titolo della quarantesima edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, che si terrà nella Fiera di Rimini dal 18 al 24 agosto 2019, sarà

 Nacque il tuo nome da ciò che fissavi

«È un verso di una poesia di Karol Wojtyla», spiega Emilia Guarnieri. «E quindi nel 2019 avremo un titolo in piena continuità con i contenuti di quest’anno. Se nel 2018 abbiamo messo al centro la persona, l’uomo che cerca la felicità e fa esperienza di essa, l’anno prossimo andremo ulteriormente al fondo per scoprire da dove può nascere il volto, la fisionomia della persona».

sabato 25 agosto 2018

Meeting di Rimini - sesta giornata



Ieri abbiamo partecipato al dibattito con il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani e il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Enzo Moavero Milanesi, introdotti da Luís Miguel Poiares Maduro, Global Governance Programme director e professor of Law all’Istituto Universitario Europeo (EUI), e da Giorgio Vittadini, presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

Sulla questione della nave Diciotti, “servirebbe un’effettiva volontà dei governi europei di condividere le questioni relative ai migranti, che non possono essere affidate solo alla geografia fisica del nostro continente”, ha detto il ministro. “Ci sono purtroppo mote difficoltà a trovare quella piena condivisione che spesso viene enunciata a parole e raramente viene praticata nei fatti”, ha aggiunto. Nonostante ciò, “pagare i contributi all’Ue è un dovere legale dei membri”.

Durante l’incontro si è parlando ancora del tema delle migrazioni. “Spesso si sente dire: l’Europa non ha gli strumenti. Attenzione: non è vero. I trattati europei prevedono norme che chiedono alle istituzioni dell’Unione europea, e agli Stati, di adottare normative”, ha detto Moavero. “Quindi è una scelta europea di essersi dotata di normative unicamente riguardo al diritto di asilo, e di cercare di riformarle. E gli altri, chi non ha diritto di asilo? Perché non abbiamo pensato a realizzare norme che riguardano la valutazione di chi arriva, di pensare a fare lavorare oppure per fare controlli comuni esterni alla frontiera? Perché ragioniamo in frontiere di Stati e non di frontiere comuni? Qui c’è una contraddizione concettuale stridente con i valori fondanti dell’Ue, di cui spesso ci riempiamo di parole”.

“Non si può continuare a giocare con la geografia”, ha perciò proseguito il suo intervento in maniera decisa. “Il problema non è soltanto nostro, queste persone arrivano in Europa, ed è l’Europa che deve affrontare la questione. Vorremmo vedere la Commissione europea fare proposte legislative, e non solo sul singolo caso. Non dobbiamo però guardare solo la foce, ma la sorgente: se i paesi da cui vengono sono in guerra, l’Europa deve essere protagonista dei processi di pace. Qual è l’azione europea per la pace nel continente? Si parlava dei cristiani in medio Oriente. Ma noi abbiamo un protagonismo europeo nei processi di pace? Ci sono regimi autoritari e dittatoriali da cui fuggono molte persone, poi ci sono migranti economici che lasciano paesi in condizioni difficilissime. L’azione europea è sufficientemente efficace? Occorre anche coltivare delle dirigenze in queste paesi. Il Piano Marshall funzionò perché nei paesi che uscivano da dittature c’erano classi dirigenti oneste e capaci che seppero usare questi fondi. La discussione è molto più articolata del cosa fare con le persone che arrivano qui da noi. Bisogna combattere le organizzazioni neo-schiaviste che si sviluppano nei paesi di origine di queste persone passando nel nord dei paesi africani fino ai nostri paesi. Di questo si tratta: sfruttamento di persone. Fare arrivare in maniera disarticolata, clandestina e spesso illegale persone da noi significa esporli allo sfruttamento. Agire in maniera efficace, non in termini neo-colonialisti, nei paesi di origine, significa aiutarli a crescere e a risolvere il problema. Se vogliamo essere coerenti con i valori fondanti dell’Unione europea noi dobbiamo pensare insieme a come risolvere questi problemi”.

Parlando di economia poi il ministro ha spiegato che “l’euro nasce con una sorta di peccato originale, perché l’elemento di condivisione del rischio è, vuoi assente, vuoi estremamente sfumato”, e “condividere una stessa moneta senza condividere i rischi è un azzardo. Oggi – ha aggiunto – parliamo di riforma dell’eurozona, e la Commissione europea sta discutendo proposte concrete. Si parla di umanizzare il fiscal compact ma poi calerebbero le possibilità di deroga, spostando l’attenzione dal deficit al debito. Non ci sono parole sulle sanzioni degli elementi interni di squilibrio commerciale, quindi quando parliamo a riforme pensiamo sempre a fissare regole interne agli stati. Mentre secondo me si dovrebbe accentuare sempre di più la forza di politiche economiche europee vere. Bisognerebbe avere il coraggio di dotare l’Ue delle tasse europee, come nella storia dell’unione degli Stati Uniti d’America, via via che si creava un insieme sempre più coeso a livello federale”, ha affermato l’attuale Ministro degli esteri, affermando tuttavia subito che “è una brutta parola, tasse”, e aggiungendo, da ultimo, “penso che non sia un peccato mortale parlare di emissione di titoli di debito europeo”.

Antonio Tajani da parte sua ha risposto: “Certamente l’Europa così com’è non va, è troppo distante dai cittadini, c’è un’assenza della politica e quando c’è questa manca la visione strategica. Ma non è un motivo per abbatterla, perché saremmo un vaso di coccio tra giganti di acciaio: Russia, Stati Uniti, Cina, India”. La prima riforma da fare perciò, per Tajani, è “il ritorno alla politica. La burocrazia gestisce la macchina, ma senza pilota gira intorno e va a sbattere contro il muro. E la guida può essere so-lo politica e legata ad alcuni valori, quelli cristiani dei padri fondatori dell’Unione europea. Abbiamo millenni di storia comune, che, voglio sottolineare, è cristiana. Perché quello che ci lega quando andiamo a Vilnus, La Valletta, Lisbona o Praga è sempre il crocifisso, che troviamo da tutte le parti”.

venerdì 24 agosto 2018

Meeting di Rimini - quinta giornata




Nello spazio del Padiglione A5 Arena della Storia, abbiamo assistito all’incontro con Francesco Bonini, rettore dell’Università Lumsa, e Diego Fusaro, saggista. Ha moderato Lorenzo Malagola, segretario generale della Fondazione De Gasperi.

Introducendo il tema del dibattito, Malagola ha posto la domanda attorno alla natura della democrazia diretta. “Non si tratta di un novum nella storia, basti pensare alla democrazia in Grecia ai tempi di Pericle. La que-stione è tanto più pertinente se si fa riferimento al fatto che in Italia, nel governo attuale, vi è un Ministero ‘per la democrazia diretta’.

“Tale ministero – ha precisato Bonini - ha preso il posto che aveva il ministero delle riforme. Questo significa che in gioco non c’è più un problema di natura puramente ingegneristico, di ‘ingegneria isti-tuzionale’, ma di democrazia in quanto tale. La contrapposizione fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa è un pretesto. C’è in gioco la democrazia come tale”. Bonini ha poi ricordato che nell’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II “la Chiesa apprezzi il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governanti la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno. E tuttavia, aveva poi avvertito che ‘una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia’”.

Alla domanda rivolta a Fusaro se “le giovani generazioni hanno consapevolezza della messa in pericolo della democrazia”, il giovane filosofo ha affermato decisamente che “le nuove generazioni non lo sono affatto perché c’è in atto un processo di sgretolamento, di totalitarismo glamour, tipico della società dei consumi”. Facendo riferimento al famoso classico di Aristotele, la Politica, dove il filosofo greco afferma che la democrazia ha bisogno di un ceto medio e di una distanza fra chi governa e chi è governato, Fusaro ha poi sostenuto con decisione che “nelle democrazie attuali non c’è più né ceto medio, né distanza. Siamo nell’epoca postdemocratica, in cui si sta dissecando la radice democratica”. Per sostenere la sua tesi Fusaro ha fatto riferimento a fatti storici relativamente recenti, come la decisione unilaterale di bombardare il Kossovo, o la Libia. E ancora, la supponenza da parte di un autorevole esponente della politica italiana per cui, parlando della Brexit ha tacciato gli inglesi di aver peccato di democrazia, facendo un cattivo uso del referendum.

Di fronte alle insidie dei poteri che sovrastano la politica, il potere finanziario, il turbocapitalismo, la globalizzazione, come si può rigenerare la democrazia? Bonini ha affermato che si tratta di “giocare il gioco della democrazia in un quadro multilevel, come dicono gli inglesi: a livello locale, nazionale, delle aggregazioni sovranazionali, della melassa globale, senza semplificare i termini del problema, ma che tenga conto di tutti i livelli. Noi non abbiamo più gli strumenti come i partiti. Ci furono coloro che criticarono la stagione della repubblica dei partiti e la partitocrazia. Oggi abbiamo una cultura po-litica più povera. La democrazia presuppone la soggettività della società. La democrazia deve garantire che queste istanze si esprimano”.

Anche Fusaro ha riconosciuto “che stiamo assistendo alla neutralizzazione o alla spoliticizzazione della politica, come diceva C. Schmitt, nella cosmopoli di cui siamo abitatori. Svuotamento della politica e svuotamento degli stati sovrani, con emorragia di democrazia. Gli stati che fanno parte dell’UE avrebbero potuto cedere delle quote di sovranità se la stessa l’avessero potuta recuperare attraverso l’istituzione di un’autentica unione europea di stati. Ma l’UE - com’è, nello stato dell’arte - ha imposto un altro modello, in cui ciò che domina è la finanza. La sovranità nazionale è la vera risorsa da difendere”.

Alla domanda se vi siano rischi di rigurgiti di violenza, in Italia e in Europa, Fusaro ha risposto che “la violenza, in realtà è già pienamente dispiegata. È una violenza di tipo economico. Non ha esigenza dell’estetica dei supplizi, citando Octave Mirbeau. La violenza dell’economia di mercato ingenera uno sradicamento dei giovani dalla propria storia”. Fusaro ha proposto di mutare il termine globalizzazione in glebalizzazione. I giovani di oggi, intenti ai loro smartphone, sarebbero i nuovi ‘selfi della gleba’ che anziché protestare di fronte alle gravi contraddizioni della storia, come è accaduto in altri momenti della storia, si fanno i selfie mentre subiscono la violenza.

giovedì 23 agosto 2018

Meeting di Rimini - quarta giornata


Mario Calabresi

Ieri pomeriggio abbiamo partecipato all'incontro sul tema della mostra riguardante il '68.

Ha introdotto l’incontro, in una Auditorium A3 gremito, Francesco Magni, assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Bergamo e coordinatore di Redazione della rivista Nuova Secondaria, chiedendo perché fare una mostra e parlare del ’68 oggi al Meeting a Maria Bocci, professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano.

Racconta la professoressa che ha constatato come i ragazzi di oggi considerino il ’68 un mito, pur non avendolo vissuto e non conoscendolo. Si è quindi domandata perché questa “brillantezza” di quel momento storico e crede che la risposta possa identificarsi nel fatto che i ragazzi lo associano a istanze sempre attuali di “cambiamento ed autenticità”. L’interrogarsi dei giovani d’oggi sul ’68 li spinge a farsi delle domande anche a livello “esistenziale”: cos’è il cambiamento e chi è capace di provocare il cambiamento. Sono domande che caratterizzano infatti anche il “nostro tempo travagliato”.

Maria Bocci osserva che il ’68 è il primo momento storico in cui “i giovani sono emersi come catego-ria distinta a tutti i livelli dagli adulti, globalizzata e protagonista della storia”. La rivolta del ’68 contro i principali capisaldi della cultura tradizionale ha originato “il vuoto che spaventa” di oggi. Ciò perché i nuovi caposaldi del ’68 (marxismo, scuola di Francoforte, terzomondismo) oggi non esistono più. Ciononostante i giovani di oggi sono accomunati a quelli del 68 dallo stesso desiderio di cambiamen-to ed autenticità, ed è questo il motivo del fascino e dello stimolo che tale periodo storico esercita sui giovani d’oggi.

Magni rilancia le domande dei ragazzi di oggi su autenticità e cambiamento a Mario Calabresi, direttore de la Repubblica.

Il direttore risponde alla domanda sul cambiare il mondo prendendo le mosse dall’impressione che Marchionne gli riferì aver avuto dal Meeting: “ho visto dei giovani con un’energia negli occhi che non credevo possibile”. Passa poi all’esempio di sua zia, che partecipò alla prima occupazione, alla Statale di Milano, nel 67; vista la piega che presero gli eventi (dimostrazioni, scontri) la zia, laureatasi medico, decise di andare a fondare un ospedale in Uganda; fece la lista nozze indicando come regali il necessario per il piccolo ospedale (una stanza nella savana) si sposò e partì col marito. Calabresi, tornato dopo 45 anni a vedere cosa avesse prodotto quella lista di nozze, ha trovato un ospedale che (tra l’altro) assiste diecimila parti l’anno: “Questo significa andare ad aiutarli a casa loro; non è sbagliato dire aiutiamoli a casa loro, bisogna però poi anche farlo”.

Sull’autenticità, Calabresi consiglia ai ragazzi di badare al valore delle parole, a sostituire nelle frasi, i vocaboli superlativi con quelli più moderati, per constatare quanto maggiore sia l’effetto dei secondi sugli interlocutori.

Parla ai ragazzi Calabresi, spiegando che negli anni ‘60 il consumismo (già allora combattuto) non era quello di oggi, per comprare una lavatrice (oggetto simbolo) occorrevano cinquanta rate di mutuo, oggi la si vede e si compra. Questo tutto e subito fa perdere autenticità e gusto all’ottenere. I giovani vanno accompagnati nel sacrificio, non deve loro evitarsi la fatica, perché tanto più duro è il lavoro per raggiungere l’obiettivo, quanta maggiore sarà la soddisfazione nel conseguirlo. “La fatica è la cosa migliore che può capitarci” e quindi piuttosto che un sussidio per vivere ai giovani debbono essere assicurati “strumenti per farsi una vita”.

mercoledì 22 agosto 2018

Meeting di Rimini - terza giornata

La scrittrice Veronica Cantero Burroni

“Qualsiasi destino, per vasto e complicato che sia, consiste in realtà di un solo momento: il momento in cui l’uomo comprende per sempre chi è”. Questa frase di Borges ha lasciato tutti commossi ieri pomeriggio nel Salone A3. Forse perché la citazione arrivava dalla giovane voce di Veronica Cantero Burroni, scrittrice quattordicenne, o perché questa minuta ragazza l’ha pronunciata con una semplicità cristallina dalla sua sedia a rotelle con tanto di sistema di postura. Gli occhi vivi di gratitudine.

Veronica attraverso un breve video iniziale racconta di sé, della sua gratitudine per la vita e della sua passione per lo scrivere. Evidentemente è anche molto brava. L'ultimo suo romanzo (ne ha pubblicati 4) è “El ladron de sombras”, pubblicato in italiano col titolo “Il ladro di ombre”. Il libro ha vinto il Premio Elsa Morante Ragazzi 2016 ed è stato dichiarato di interesse legislativo dal consiglio comunale della città di Campana, dove Veronica vive con la famiglia. La giovane scrittrice racconta del suo incontro con papa Francesco dopo che le immagini di quel momento hanno commosso non poche persone nel salone. “Ho scritto questa frase sul mio libro che ho regalato al papa Francesco: ti dedico questo libro per ringraziarti di tutto ciò che mi hai insegnato. Mi hai insegnato ad usare il mio occhio di vetro e il mio occhio di carne, perché questo è un sogno per me, un sogno che oggi vivo”. Veronica spiega con l’esperienza che cosa è questo occhio di vetro. Tra i dieci e gli undici anni ha cominciato a chiedere a Dio, non il perché, ma piuttosto per quale fine gli aveva regalato una condizione così limitante: “Egli mi disse: Io ti do questo dono affinché attraverso di esso tu possa mostrare alle persone che in qualunque circostanza loro possono essere se stesse”.

Veronica lo è veramente se stessa, sta scoprendo la sua vocazione nel mondo. Narra dell’esperienza dello scrivere come di una necessità, come solo i grandi autori riescono a fare. Questo giovane gigante della fede senza pudore, senza falsi sentimentalismi, comunica della sua malattia, del dolore che spesso le provoca e dei desideri che spesso si infrangono contro la dura realtà. Confida a tutti la ragazza: “Ho iniziato a scrivere le mie preghiere personali. In loro ho riversato fino all’ultima goccia di dolore, i dubbi e le paura che mi portavo dentro. Gli ho chiesto soprattutto che mi donasse cinque cose: forza, speranza, fiducia, pazienza e pace. All’improvviso Dio si è trasformato in un amico inseparabile cui non potevo smettere di raccontare ciò che accadeva ogni giorno”.

Anche Paola Cigarini, responsabile del centro educativo João Paulo II a Salvador de Bahia in Brasile, mostra un video narrante l’esperienza del doposcuola offerto alle famiglie più povere delle favelas. Racconta della situazione tragica, soprattutto dal punto di vista educativo, del bambini e dei ragazzi del quartiere, abituati fin da piccoli a vedersela da soli. Dichiara l’educatrice: “In Brasile la vita nelle favelas è costantemente variabile”. Persistono, infatti, fattori che per noi occidentali sono scontati: avere uno stipendio, avere qualcosa da mangiare, potersi recare a scuola e trovarvi gli insegnanti. Questi sono elementi non affatto scontati e comunque instabili in Brasile per il 60% della popolazione. Il centro João Paulo II offre la possibilità ad una larga fetta di ragazzi, cinquecento al giorno, di approfondire le materie insegnate a scuola, e, per il ragazzi più grandi, di svolgere percorsi di avviamento al lavoro.

“La nostra struttura – spiega la Cigarini – è molto bella e i ragazzi la sentono propria, non si sognerebbero mai di non prendersene cura, a differenza di quello che vedo accadere nelle loro scuole, dove tutto è distrutto e gli insegnanti si chiudono a chiave in sala professori”. Come mai? La chiave di volta è nell’aver deciso di essere per questi ragazzi una presenza. Una presenza che interagisce e dialoga con loro ad un livello umano, né punitivo né lassista. Tutti gli educatori del centro prendono sul serio i piccoli ospiti, affrontando insieme a loro esigenze e problematiche che emergono in un’età tanto fragilmente esposta alla violenza del disordine delle favelas. Con tale metodo, che non è una ricetta magica, si può arrivare a rischiare esponendosi, fino ad andare a cercare dopo una marachella i responsabili casa per casa per dialogare. Con tale metodo, in una società, come quella del Brasile, in cui la mobilità verticale è abbastanza improbabile, si può affrontare il dolore di una non inclusione senza che esso diventi violenza e si può sperare che ogni ragazzo viva un futuro non del tutto determinato dei propri antecedenti, ma che egli possa giocare la propria libertà dentro la complessità della realtà.


martedì 21 agosto 2018

Meeting di Rimini, seconda giornata



Ieri, lunedì 20 agosto, abbiamo seguito l'incontro dal titolo: " Da Giobbe all’Olocausto, quando l’uomo e la storia fanno i conti con il dolore".

C’è un ospite antico, ma sempre nuovo ed attuale, che riempie gli spazi della Fiera e interpella anche i più distratti visitatori. È l’antico patriarca Giobbe, colui che “sopporta le avversità”, a cui il Meeting ha dedicato una bella mostra e che nel pomeriggio ha tenuto incollate a schermi e sedie, per due ore, migliaia di persone. A compiere questo vero e proprio miracolo estivo, lo ha aiutato bella compagnia di giovani attori e musicisti (Massimo, Paolo, Mirna, Yazan) che si sono inseriti con brani musicali, versetti biblici e testi letterari (da Montale a Luzi e Caproni, da Wiesel a Chesterton, passando per Yossi Rakover), fra gli eccezionali interventi-testimonianza dei tre ospiti: Julián Carrón, presidente della di Fraternità di Comunione e Liberazione; Mario Melazzini, direttore di Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco; Salvatore Natoli, filosofo, già ordinario di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Milano.

Monica Maggioni, giornalista Rai, ha tenuto le fila di un viaggio nel dolore umano, dalle sventure di questo uomo “della terra di Uz” fino alle grandi tragedie del Novecento, l’Olocausto innanzitutto. Un viaggio alla ricerca del “perché” del dolore e del male del mondo, dell’atteggiamento degli uomini e della loro responsabilità, della risposta che a questo male, a questo dolore gli uomini sono stati capaci di dare. Fino alle conclusioni presentate dagli ospiti. Carrón e Melazzini hanno parlato della vicinanza di un Dio che esiste e che può aiutare in tutto. “Un Dio verso il quale – ha affermato Carrón – in Giobbe come in Gesù e in tanti altri cristiani non ha vinto il sospetto, ma la familiarità nata da una esperienza di amore e di bene sperimentata nel tempo”. Il laico Natoli non è arrivato a tanto. Al termine dell’incontro, si è richiamato ai discepoli di Emmaus, che non avevano riconosciuto Gesù risorto: “Ma siccome si faceva sera, gli chiesero di restare con loro e lo riconobbero quando spezzò il pane: per un laico come me non c’è altro modo di esperire Dio”.

Giobbe aveva tutto quello che un ebreo giusto poteva desiderare come premio per il suo rispetto della Legge: dieci figli, migliaia di capi di bestiame, amici, una vita agiata. Su di lui si gioca una partita tra Dio e Satana, con il demonio che chiede il permesso di metterlo alla prova, per vedere se Giobbe ama Dio solo perché Dio è stato generoso con lui. “Ma alla fine – commenta il professor Natoli – Giobbe dimostrerà che Dio si deve amare per niente, per un’esperienza di assoluto amore. Giobbe si rivolge a Dio dicendogli: ‘io nonostante tutto non voglio perderti’”.

“Fino al Settecento, nell’esperienza del dolore, l’uomo rivolgeva una domanda a Dio, del cui amore continuava ad avere esperienza e memoria – ha spiegato Carrón –. Poi qualcosa si è rotto ed il pen-siero moderno parte dal dolore per mettere alla prova l’esistenza di Dio. Manca l’interlocutore e non c’è più una domanda”. Si torna – come ha ricordato il professor Natoli – al dolore degli antichi greci, inteso come fatto di natura, non posto in termini di giustizia, al modo degli ebrei, che per questo interpellavano Dio.
L’altro scenario del dolore umano, delle domande e delle risposte contrastanti tra loro, è l’Olocausto, la distruzione degli ebrei. Davanti alla mezz’ora di agonia di un bambino, impiccato ad Auschwitz per rappresaglia, Eli Wiesel scrisse di aver smesso di pregare e a chi gli chiedeva dove fosse Dio in quel momento, rispondeva che Dio era lì, in quel bambino appeso ad una forca. E Yossi Rakover, ebreo del ghetto di Varsavia, vicino alla fine, disse a Dio che sarebbe morto come aveva sempre vissuto, in una fede eterna in lui. Carrón ha voluto ricordare il Diario di Etty Hillesum, scritto fra il ’41 e il ’43, anno della sua morte, dove la giovane ebrea nella disperazione che è intorno a sè dice: “Sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno – ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c’è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine”.

Ma Dio, davanti alla Shoa, non poteva fare niente? “No – ha risposto Natoli – per intervenire sul do-lore inflitto dall’uomo ad un altro uomo, Dio dovrebbe togliere la libertà all’uomo stesso. Noi siamo responsabili del male che facciamo”. “Lo scandalo del male è lo scandalo della libertà – ha aggiunto Carrón –. Noi vorremmo un mondo senza libertà, ma Dio non preferisce un’obbedienza meccanica, vuole persone con cui stabilire un rapporto di libertà. Il dolore sfida la ragione e la libertà, la capacità dell’uomo di stare davanti a tutta la tà”.

Al dottor Melazzini, sessant’anni, malato di Sla dal 2003, il compito di testimoniare la sua esperienza di Giobbe del XXI secolo. Aveva tutto, fama e successo professionale; si considerava “un uomo fortunato”. Finché non è arrivata la diagnosi spietata della malattia inesorabile, capitata proprio a lui che aveva speso la vita per far del bene e salvare quella degli altri. Cominciò a rinchiudersi in sé, a lasciare quasi tutti gli amici, isolarsi fino a decidere di farla finita (aveva anche preso contatti con una clinica svizzera specializzata). Poi un amico gesuita che gli regalò la Bibbia con un segnalibro all’inizio del libro di Giobbe, le parole di Madre Teresa e la lenta consapevolzza che la malattia fa parte della vita, non come una punizione, bensì “come un valore aggiunto. Perché prima Ti conoscevo per sentito dire, ora Ti ho incontrato”. “In ognuno di noi c’è Giobbe – ha concluso Melazzini –. Poniamoci domande e aspettiamo la risposta di un Dio che c’è e può aiutare in tutto”.

Da Giobbe a Gesù, “ma non per concludere un discorso teorico – ha avvertito la Maggioni – ma per dare una prospettiva, offrire una possibilità da verificare esistenzialmente”. “L’imponente presenza che Dio rivela a Giobbe è solo l’inizio – ha approfondito Carrón –. Quella presenza, che aveva fatto ogni cosa, doveva evolversi fino a diventare carne in Cristo. Il rapporto di Gesù con il Padre era così potente che il male non è riuscito a scalfirlo, neanche quando quel calice non è passato oltre. Gesù ha sofferto come noi, Dio non gli ha risparmiato nulla, ma lui non se n’è staccato, e così “può accompagnarci nel nostro percorso umano”.

lunedì 20 agosto 2018

Meeting di Rimini, giornata d'apertura



Domenica 19 agosto si è aperto il Meeting di Rimini. Abbiamo partecipato all'incontro inaugurale, nel salone A3, dal titolo: "Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice".

L'incontro si è aperto con un minuto di silenzio, ricordando la tragedia di Genova. A chiederlo è stata la presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli Emilia Guarnieri: “È un momento di silenzio, di amicizia, preghiera e vicinanza umana agli amici liguri, alle famiglie colpite, alle vittime e ai feriti. La pace, chi la conosce, sa che gioia e dolore in parti uguali la compongono”, ha ricordato, citando Paul Claudel. In apertura Guarnieri dell’incontro ha dato lettura del messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Manuel de Oliveira Guterres. Introducendo il relatore, S. Ecc. Mons. Christophe Pierre, la presidente ha posto alcune significative domande: che cosa produce il desiderio del cuore dell’uomo nella vita personale, nell’organizzazione della società, dell’economia, nel lavoro, nella politica? Può cambiare la storia?

L’arcivescovo, nunzio apostolico negli Stati Uniti, ha svolto in modo vibrante e appassionato il tema che dà il titolo alla XXXIX edizione della manifestazione. Fra gli ospiti in platea, il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione don Julián Carrón e la presidente uscente della Rai Monica Maggioni.

Pierre, richiamando una nota espressione di papa Francesco, ha rilevato che “di fronte al cambiamento la gente comincia a disperarsi, dimenticando di essere protagonista della storia”. Che cosa può dunque rendere tale? “Solo un incontro che risveglia il cuore e riapre alle possibilità del futuro: come è accaduto negli incontri che la gente ha avuto con Gesù. O negli incontri personali che Papa Francesco ha con la gente che incontra oggi. O negli incontri che accadono a noi, come eredi di don Giussani”.

Affascinante e coinvolgente è stata, in tal senso, la lettura del brano evangelico della samaritana offerta dal nunzio apostolico: “Quando Gesù le si presenta come acqua viva, c’è nella donna una presa di coscienza: ella riconosce di avere a che fare con una persona davvero eccezionale, qualcuno che avrebbe potuto soddisfare la sua sete più profonda, la sete di felicità”. La samaritana, ha proseguito infatti Pierre, “aveva cercato di placare la sua sete la sua sete con le cose terrene e si era ritrovata perennemente assetata, insoddisfatta e frustrata. La sua era, dunque, una vita di dolore, di miseria, di solitudine”. Proprio come spesso accade a noi: “Cerchiamo di far fronte ai nostri peccati, alle debolezze e alle inadeguatezze colmando le nostre vite con cose che pensiamo possano soddisfarci, dall’alcol e le droghe alla ricchezza e al potere; ma alla fine nulla ci soddisfa”. L’incontro della donna con una “Presenza originale” la porta, invece, a scoprire la sua umanità e le possibilità di “vivere in un modo nuovo” testimoniando quanto accadutole.

Monsignor Pierre ha osservato le analogie tra tale episodio e la lungimiranza pastorale e missionaria del Santo Padre. “Con le sue encicliche, i discorsi e i gesti, il Papa chiama la Chiesa a prendersi la responsabilità di facilitare una esperienza personale di Gesù, che riempie la vita di gioia”. Il prelato ha offerto, dunque, una lettura del pontificato di Bergoglio alla luce della Conferenza dei vescovi dell’America latina ad Aparecida (2007): “In quell’occasione problemi come l’insicurezza che domina il vivere dell’uomo moderno e i suoi effetti sull’evangelizzazione sono stati affrontati col metodo dell’ascoltare la realtà, dialogando con tutti i livelli della società. Analogamente il Santo Padre propone la visione di una chiesa che facilita l’incontro con Cristo. Questa missione – ha proseguito il relatore – richiede innanzitutto di prendere coscienza di ciò che esiste nel cuore dell’uomo: il senso della verità, della giustizia, del bene, della felicità e della bellezza. Il Papa invita la Chiesa ad essere missionaria, a placare la sete dell’uomo per la Presenza di Dio in Gesù. La sua elezione – ha chiosato Pierre – in questo momento storico è veramente provvidenziale, perché la Chiesa ha ricevuto un Pastore che la spingerà ad essere una Chiesa di incontro, di misericordia e di testimonianza, pienamente impegnata e coinvolta nella realtà”.

Il relatore ha proseguito, dunque, tratteggiando un’analogia tra Francesco e don Luigi Giussani: “Il Signore ha chiamato Giussani ad essere un profeta fondando Comunione e Liberazione e guidando il movimento attraverso i tumultuosi tempi del 1968, in cui la fede sembrava disconnessa dalla vita e gli ideali e le speranze di felicità dei giovani erano modellati da una mentalità secolarizzata. Educare i giovani e portarli a vedere l’attrattiva di Cristo come il centro della vita e l’adempimento dei loro desideri diventò, allora, il compito fondamentale di don Giussani. Egli invitò ad una verifica costante della proposta cristiana, un paragone con l’esperienza per valutarne la corrispondenza al desiderio di felicità insito in ogni cuore. Oggi – ha osservato Pierre – ci troviamo di fronte a un’ulteriore riduzione della capacità di guardare la realtà e quindi del sé, sotto l’influenza del potere terreno. Il Movimento di CL, applicando la sensibilità del metodo educativo proposto dal fondatore, è chiamato a proporre un percorso che guardi avanti, affinché uomini e donne possano diventare consapevoli, non solo di quali siano i loro bisogni più profondi, ma anche di cosa hanno dentro sé stessi”.

“Siamo alle soglie di un cambiamento epocale, parliamo di rivoluzione tecnica e delle comunicazioni, ma qual è la vera rivoluzione?”: monsignor Pierre ha concluso individuando la risposta a questa domanda nella “rivoluzione del cuore. Non possiamo costringere nessuno a credere, come Gesù non ha costretto la samaritana; piuttosto, le ha dato, attraverso il dialogo, la possibilità di perseguire il vero desiderio del suo cuore. E anche noi – ha affermato il prelato – possiamo offrire a coloro che incontriamo, specialmente ai giovani, l’opportunità di condividere la grazia che abbiamo ricevuto. Il mondo oggi ha bisogno di testimoni: genitori, educatori, politici, compagni di lavoro e sacerdoti. Abbiamo bisogno di una Chiesa che testimoni la gioia dell’appartenenza a Cristo”

venerdì 17 agosto 2018

Meeting di Rimini 2018


Ancora poche ore e avrà inizio la 39° edizione del Meeting di Rimini dal titolo: "Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”.

Anche quest'anno peanutsfromitaly seguirà la manifestazione da vicino, ed ogni giorno vi informerà su quanto accaduto al Meeting la giornata precedente.

Per il momento, eccovi alcune cifre che vi faranno capire quanto imponente sia stata la macchina organizzativa.

Sono 148 gli incontri previsti dal programma ufficiale: 18 gli spettacoli, 14 le mostre (compresa “Il veliero di Narnia” allestita nel “Villaggio Ragazzi”), 32 le manifestazioni sportive.

Ammontano a 397 i relatori che interverranno agli incontri. Ma se allarghiamo lo sguardo oltre i convegni segnalati dal programma ufficiale e inseriamo nel computo gli incontri che si svolgeranno nelle nuove sette arene allestite in Fiera, il numero degli incontri sale a 234 e i relatori diventano 528.
Tutti gli incontri e le mostre sono ad ingresso libero. Si possono seguire, gratuitamente, anche tutte le proposte del cartellone Sport.

Luoghi e spazi occupati. Gli ampi spazi della Fiera di Rimini, trasformati dal lavoro e dalla creatività di migliaia di volontari, ospiteranno le molteplici proposte della manifestazione: 130mila i metri quadrati occupati dal Meeting 2018, che utilizza 12 padiglioni della Fiera, la Hall centrale e 8 padiglioni di collegamento. Fuori dal grande contenitore fieristico verranno proposti 5 spettacoli (quello inaugurale nella Piazzetta sull’acqua nei pressi del Ponte di Tiberio e 4 spettacoli al Teatro Ermete Novelli) e alcune manifestazioni sportive.

Sale incontri e spettacoli. Alla Fiera di Rimini sono 3 le grandi sale destinate agli incontri del Meeting 2018: l’Auditorium Intesa Sanpaolo A3 (che può contenere 6.000 persone) che, con limitate trasformazioni diventa il Salone Intesa Sanpaolo A3 (da 3.000 persone) e la Sala Neri UnipolSai (800 persone). Numerosi incontri si svolgeranno nelle sette nuove Arene (da 150-200 posti ciascuna) allestite in Fiera nelle Aree e negli Spazi dedicati a specifiche tematiche. Alcuni convegni si svolgeranno nella sala Tiglio (200 persone) che con altre 11 salette della Fiera verrà utilizzata per incontri liberamente richiesti dal pubblico e dalle associazioni presenti alla manifestazione.  L’Auditorium, la Sala Neri ed altri contenitori verranno utilizzati anche per gli spettacoli proposti in Fiera. Nell’Open Arena Illumia Piscine Est, ritornano, in seconda serata, 6 spettacoli di gruppi musicali offerti gratuitamente al pubblico. A ingresso libero, in Sala Neri, anche le due guide all’ascolto del ciclo “Spirto Gentil”.

Volontari. Sono 2.527 le persone che, durante la settimana del Meeting, impegneranno gratuitamente energie, competenze e anche ferie per consentire lo svolgimento della manifestazione e garantirle quel particolare clima che la caratterizza. Provengono da ogni parte d’Italia e anche dall’estero (113): Spagna, Argentina, Russia, Francia, Indonesia, Belgio, Canada, Colombia, Cuba, Gran Bretagna, Lituania, Olanda, Polonia, Stati Uniti e da altri paesi. Il lavoro dei volontari è articolato in 15 dipartimenti; quelli numericamente più consistenti sono il dipartimento Servizi generali (554 persone) e il dipartimento Ristorazione (474 volontari). Per completare il quadro, bisogna ricordare e aggiungere le altre 400 persone (in maggioranza universitari) che, durante il “pre-Meeting” (dall’11 al 18 agosto), hanno lavorato per l’allestimento della Fiera. Sommando i dati, toccano quota 2.927 i costruttori, sotto il segno della gratuità, del 39mo Meeting.

La parola al Direttore. Il direttore del Meeting Sandro Ricci sottolinea due novità della manifestazione 2018. «Rappresentano un’innovazione del format del Meeting», osserva Ricci, «i quattro spazi tematici e le tre grandi aree tematiche proposte quest’anno, ognuno con un’arena per gli incontri». Gli spazi tematici riguardano il Sessantotto (nel padiglione A5), gli scenari internazionali (spazio “Cammini”, in B2), l’astrofisica (“Exoplanets”, B3) e l’innovazione (Cdo for Innovation, A5/C5). Le tre grandi aree, che coinvolgono i partner del Meeting, sono dedicate al lavoro (MeshArea in B1), alla mobilità (“Move to meet”, A1) e alla salute (Meeting Salute, C3). «Queste nuove proposte», aggiunge Ricci, «non sono nate a tavolino, ma danno sviluppo ad esigenze e tentativi emersi negli ultimi due anni. Sottolineo due aspetti: la domanda crescente del pubblico di poter interloquire e dialogare liberamente coi relatori in spazi più contenuti, rispetto ai grandi saloni e l’opportunità di creare spazi articolati che propongono insieme mostre, incontri, interventi espressivi e di intrattenimento».

«L’altra significativa novità», continua il direttore del Meeting, «è che la manifestazione torna a vivere anche nella città di Rimini, ad occupare e valorizzare grandi spazi cittadini. Penso allo spettacolo inaugurale, liberamente tratto da un capolavoro di Paul Claudel, che si svolgerà nella piazzetta sull’acqua a ridosso del Ponte di Tiberio. Lo spettacolo, in parte sull’acqua, in parte sulle rive dell’invaso, valorizza un luogo suggestivo, carico di storia e fruibile da migliaia di persone, recentemente recuperato».

Bilancio e sponsor. I costi preventivati del Meeting 2018 sono di 5 milioni 972mila euro. Le voci relative alle entrate prevedono, in ordine decrescente: servizi di comunicazione per le aziende (3 milioni 550mila euro), introiti dalla ristorazione (1 milione 104mila), attività commerciali, biglietti delle manifestazioni a pagamento e contributi da privati (legati al fundraising). Sono 3 i main partners del Meeting 2018 - Enel, Intesa Sanpaolo, Wind 3 - 8 gli official partners (Fondazione Ania, Autostrade per l’Italia, Banca 5, Eni, Pmitutoring.it, Posteitaliane, UnipolSai più Conai come Sustainability partner). Ci sono anche quattro media partner: Avvenire, Radio Vaticana Italia, Fanpage.it e Notizie.it. Nel complesso, oltre 130 aziende ed enti partecipano, a vario titolo, alla manifestazione e utilizzano il Meeting per la loro comunicazione al grande pubblico.

Ristorazione. 21mila i metri quadrati occupati dalle varie proposte di ristorazione del Meeting, spazio cucine compreso. Valorizzano le tradizioni gastronomiche di qualità di alcune regioni italiane e insieme tengono in attenta considerazione l’esigenza delle famiglie di poter pranzare a prezzi accessibili. A un’articolata linea “Fast food” (piadina e pizza comprese) si aggiungono, quindi, le diverse proposte dei ristoranti tipici: dal romagnolo “Azdora”, al “Garbino” (con sardoncini arrosto e fritto misto di pesce), al ristorante vegetariano (“Benessere Orogel”). Ricordiamo anche “La Pampa Argentina”, con “empanadas” di carne. Agli spazi della Ristorazione Meeting vanno aggiunti quelli del Self-service “Le Palme” operante in Fiera. Nel complesso, è assicurato un potenziale di 28.000 pasti al giorno, durante la settimana della manifestazione. Un’offerta per tutti i gusti e tutte le esigenze.

Villaggio ragazzi. Nel padiglione D3, un’intera area del Meeting (4.500 mq compreso il “Family’s Fast Food”) è dedicata ai bambini: ogni giorno, giochi, canti e balli, animazione, laboratori, mostre, incontri e spettacoli. Da notare – è solo un esempio – che i 7 incontri, i 7 spettacoli e la mostra spettacolo sulla vita di sant’Antonio di Padova promossi dal Villaggio non sono compresi nel computo delle proposte del Meeting e quindi si aggiungono ai numeri del programma segnalati in apertura.

Meeting on-line e cifre dell’Ufficio Stampa #meeting2018 sarà l’hashtag ufficiale della XXXIX edizione, che farà da punto di riferimento per tutti gli aggiornamenti, curiosità, notizie, anticipazioni, contenuti multimediali, interviste, commenti e vita del Meeting in tempo reale, da seguire su 6 social media Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, Flickr e Linkedln.

Nuovo formato per il Quotidiano Meeting, il giornale che viene distribuito in Fiera a tutti i visitatori e sarà disponibile, tutte le mattine, anche online sul sito della manifestazione.

domenica 22 luglio 2018

Santuario Madonna della Corona




Il santuario della Madonna della Corona, è situato a Spiazzi, sul confine fra Caprino Veronese e Ferrara di Monte Baldo in provincia di Verona, in un incavo scavato nel monte Baldo.

Nel XV secolo era un romitaggio; la prima chiesa venne inaugurata nel 1530, dopo la visita del vescovo Gian Matteo Giberti. Divenne santuario nel 1625, quando i cavalieri di Malta fecero riedificare la chiesa, che venne poi completata nel 1680.

All'inizio il santuario era noto col nome di "Santa Maria di Montebaldo". Nel 1898 si decise di ampliarla di circa due metri verso il piazzale antistante; fu così che nel 1899 fu rifatta la facciata in stile gotico e decorata con marmi di Sant'Ambrogio. 

Nel 1928 furono fatti alcuni ritocchi all'altare maggiore nella nicchia della Madonna. Nell'Anno Santo 1975 iniziarono dei lavori per la ristrutturazione della chiesa, fu scavato nella roccia per ampliarla: da 220 m2 si passò ai 600 m2, ora è lunga 30 m e larga 20 m e la sua cupola è alta 18 m. 

Le sei Campane alla veronese, in tonalità di Si maggiore, sono state fuse nel 1884. Il santuario fu consacrato il 4 giugno 1978, il completamento della ristrutturazione venne fatto in onore della visita del papa Giovanni Paolo II il 17 aprile 1988 (nel luglio del 1982 lo stesso papa aveva elevato il santuario alla dignità di basilica minore).

Mentre una volta vi si accedeva solamente attraverso una salita di gradini dal paese di Brentino in Vallagarina, oggi è raggiungibile anche attraverso una strada asfaltata dopo il paese di Spiazzi, che termina in una galleria scavata nella roccia nel 1922, dove è esposto il dipinto della Madonna.

Questa strada è percorribile solo a piedi, e lungo il tragitto ci sono le quattordici stazioni della Via Crucis in statue bronzee, e viene riprodotto il sepolcro dove venne messo Gesù dopo la sua morte.

Il santuario è il punto terminale del cosiddetto Cammino dei due Santuari, che inizia nel santuario della Pieve di Chiampo, attraversa sette valli delle Prealpi Venete e arriva al Santuario della Madonna della Corona.

All'interno del santuario vi è la Scala Santa, riproduzione della scala che si trova a Roma vicino alla basilica di San Giovanni in Laterano; è la scala dove Gesù salì e discese più volte nel giorno in cui fu flagellato, coronato di spine e condannato alla morte sulla croce, tingendola così con il suo sangue.

Per poterla percorrere ci sono delle tradizioni da seguire:

Dopo aver intinto la mano nell'acqua santa si fa il segno della croce.

Si salgono i 28 gradini solamente in ginocchio e ad ogni gradino si prega il Signore.

Con grande raccoglimento si medita e si prega sulla passione di Gesù Cristo:

  • Il sudore di sangue nell'orto
  • La flagellazione
  • La coronazione di spine
  • Il viaggio al Calvario
  • La crocifissione e morte di nostro Signore Gesù Cristo.

Un luogo di meditazione e di bellezza da non perdere.

Da visitare almeno una volta nella vita.

domenica 15 aprile 2018

Milano: il nuovo Centro direzionale



Il Centro Direzionale di Milano è un quartiere a carattere terziario posto a nord del centro cittadino, fra le due importanti stazioni ferroviarie Centrale e Porta Garibaldi.
La sua attuale estensione territoriale ricalca il quartiere proposto, ma mai completamente realizzato nel piano regolatore del 1953.

Il Centro Direzionale di Milano era previsto nel piano regolatore del 1953 come risposta alla continua terziarizzazione del centro e ai relativi problemi di congestione del traffico automobilistico.
Venne localizzato fra la Stazione Centrale e la futura Stazione di Porta Garibaldi, che si sarebbe ottenuta con l'arretramento della vecchia stazione di Porta Nuova. Secondo gli intenti dell'epoca doveva configurarsi come il baricentro dell'hinterland milanese, persino dell'intera Regione.

I punti di forza di questo progetto sarebbero dovuti essere:
  • l'incrocio dei due assi attrezzati, vere e proprie autostrade urbane che avrebbero tagliato la città (mai realizzati);
  • una linea metropolitana (attuale M2);
  • una nuova stazione ferroviaria collegata alle linee regionali delle Ferrovie dello Stato (attuale Porta Garibaldi FS);
  • le Linee celeri della Brianza (mai realizzate).

La realizzazione di queste infrastrutture avrebbe reso massima l'accessibilità al sito, sia sulla scala cittadina che su quella regionale.

Il Centro Direzionale avrebbe tratto il proprio spazio vitale, oltre che dall'arretramento della stazione di Porta Nuova, dalla demolizione di interi isolati e pezzi di quartiere ricadenti nelle aree interessate dal piano. Contestualmente a ciò vennero portati avanti pesanti sventramenti nella zona della Stazione Centrale, di Porta Nuova e di Porta Garibaldi. Corso Como venne praticamente demolito per metà e analoga sorte toccò agli edifici nei dintorni di via Borsieri, presso il quartiere Isola, laddove sarebbe dovuto sorgere il nuovo asse attrezzato, di cui il cavalcavia Bussa, sopra la Stazione di Porta Garibaldi costituisce l'unico spezzone.

Il piano particolareggiato venne pubblicato in due versioni nel 1955 e nel 1962, ma la sua attuazione risultò particolarmente faticosa, tanto da arrestarsi del tutto alla fine degli anni sessanta, soprattutto a causa dell'assenza di normative che limitassero l'ulteriore espansione del terziario nel centro storico, che proseguì inesorabilmente per tutti i decenni successivi.

La forte ostilità al progetto degli abitanti dei vari quartieri e l'insostenibile costo degli espropri portò inoltre il Comune a bloccare ulteriori sventramenti e ad abbandonare la realizzazione degli assi attrezzati.

I frutti migliori di quegli anni furono sicuramente grattacieli come il Grattacielo Pirelli, la Torre Galfa o anche la stessa Torre Servizi Tecnici Comunali. Tuttavia la qualità architettonica complessiva dei molti altri interventi portati avanti contestualmente al piano e il disastro urbanistico del tessuto in cui si inserirono fecero di tutta l'area una zona altamente disorganica, caratterizzata da ampi fuori scala, con strade relativamente strette sulle quali sorgono edificazioni assolutamente fuori contesto.

A questo scenario s'aggiunge poi quello delle vaste aree vuote e degradate rimaste inedificate per decenni. Emblema di ciò era l'area dove era sorta la stazione di Porta Nuova, parzialmente occupata dal Luna Park delle Varesine.

L'area ex-Varesine negli anni Settanta, sullo sfondo il lunapark, la torre Breda e la cupola della chiesa di san Gioachimo. Nel 1978 una variante al piano regolatore sancì il definitivo abbandono del progetto, definendo genericamente le aree "di interesse pubblico", sostanzialmente impedendo qualsiasi edificazione o sviluppo della zona.

Dopo decenni di incuria, nel 2004 l'Amministrazione Comunale approvò un vasto e rivoluzionario progetto di riqualificazione noto come Progetto Porta Nuova.

Tale intervento ha visto l'edificazione di un complesso di grattacieli a carattere terziario nella zona antistante la stazione Garibaldi connesso agli edifici residenziali e terziari dell'area ex-Varesine e a quelli ricavati dalle aree dismesse nel quartiere Isola.

Fulcro sociale dell'intero quartiere sono diventate piazza Gae Aulenti e i Giardini di Porta Nuova.
Oltre agli edifici più imponenti e iconici, come la Torre Unicredit, la Torre Diamante, il Bosco Verticale, la Torre Solaria e il vicino Palazzo Lombardia, il progetto ha comportato una radicale opera di urbanizzazione di tutto il Centro Direzionale e buona parte dei quartieri vicini atta a ricucire il tessuto cittadino, compromesso per molto tempo.

mercoledì 28 febbraio 2018

Ostia



Ostia fu una città del Latium vetus, porto della città di Roma, posta nelle vicinanze della foce del fiume Tevere.

Prima colonia romana fondata nel VII secolo a.C. dal re di Roma Anco Marzio,secondo il racconto tradizionale, si sviluppò particolarmente in epoca imperiale come centro commerciale e portuale, strettamente legato all'annona (approvvigionamento di grano per la capitale). Rimase centro residenziale e amministrativo dopo la costruzione dei porti di Claudio e di Traiano, ma decadde rapidamente in epoca tardo-antica, sostituita dal centro portuale di Porto, e fu abbandonata in epoca alto-medievale.

Le rovine della città furono scavate a partire dagli inizi del XIX secolo: si sono conservate, insieme ai monumenti pubblici, numerose case di abitazione e strutture produttive, che ne fanno un'importante testimonianza della vita quotidiana antica.

Nel 2014 gli scavi di Ostia e il suo museo sono stati il sedicesimo sito statale italiano più visitato, con 332.190 visitatori e un introito lordo totale di 1.086.099,00 Euro. Ostia Antica insieme a Pompei è il sito archeologico più grande del pianeta con un'area di 150 ettari. ed è stato riportato alla luce solo il 40% e più della metà della città è ancora sepolta.

Per informazioni: http://www.ostiaantica.beniculturali.it/it/home

sabato 20 gennaio 2018

La Certosa di Padula

La Certosa di Padula

La certosa di Padula, o di San Lorenzo,è una certosa situata a Padula, nel Vallo di Diano, in provincia di Salerno. Si tratta della prima certosa ad esser sorta in Campania, anticipando quella di San Martino a Napoli e di San Giacomo a Capri.

Occupando una superficie di 51.500 m², contando su tre chiostri, un giardino, un cortile ed una chiesa, è uno dei più sontuosi complessi monumentali barocchi del sud Italia nonché la più grande certosa a livello nazionale e tra le maggiori d'Europa.

Dal 1957 ospita il museo archeologico provinciale della Lucania occidentale e fu dichiarata nel 1998 patrimonio dell'umanità dall'UNESCO assieme ai vicini siti archeologici di Velia, Paestum, al Vallo di Diano e al parco nazionale del Cilento. Dal dicembre 2014 fa parte dei beni gestiti dal Polo museale della Campania.

I lavori alla certosa iniziarono per volere di Tommaso II Sanseverino, sotto la supervisione organizzativa del priore della Certosa di Trisulti a Frosinone, il 28 gennaio 1306 sul sito di un preesistente cenobio.

Il Sanseverino, conte di Marsico e signore del Vallo di Diano, personalità molto vicina al casato angioino, come tutto il casato, successivamente donò all'ordine religioso il complesso monastico appena edificato, ordine per l'appunto di origine francese. Nacque così il secondo luogo certosino nel sud Italia, dopo la certosa di Serra San Bruno in Calabria, con lo scopo per la famiglia salernitana di ingraziarsi i piaceri dei reali di Napoli.

La dedica a San Lorenzo della certosa si deve invece alla preesistente chiesa dedicata al santo che insisteva nell'area, appartenente all'ordine benedettino, poi abbattuta a seguito della costruzione della certosa.

L'area in cui il Sanseverino decise di edificare il sito monumentale era sostanzialmente costituito da lotti di terra di sua proprietà, essendo egli un ricco e potente feudatario. Il punto risultò sin da subito strategico e cruciale, potendo infatti contare dei grandi campi fertili circostanti dove venivano coltivati i frutti della terra (i monaci producevano vino, olio di oliva, frutta ed ortaggi) per il sostentamento dei monaci stessi oltre che per la commercializzazione con l'esterno, nonché per consentire di avere il controllo delle vie che portavano alle regioni meridionali del Regno di Napoli. L'attività commerciale dei beni primari prodotti nella certosa fu per molti secoli fondamentale in quell'area, infatti, essa era di fatto l'unico centro di raccolta di manodopera.

Nel Cinquecento il complesso divenne meta di pellegrinaggi illustri, come Carlo V che vi soggiornò con il suo esercito nel 1535 di ritorno dalla battaglia di Tunisi; secondo la tradizione fu in questa occasione che i monaci prepararono una frittata di mille uova. In questo stesso periodo, dopo il concilio di Trento, vi si aggiunse alla struttura trecentesca il chiostro della Foresteria e la facciata principale nel cortile interno.

Nei secoli successivi, a partire dal 1583 la certosa subì ingenti rimaneggiamenti, avviati sotto il priorato di Damiano Festini e che durarono fino alla seconda metà del Settecento determinandone l'attuale predisposizione architettonica, di impianto quasi esclusivamente barocco. Tra il XVI e XVII secolo l'attività produttiva-commerciale della certosa si implementò e divenne così importante che fu necessario istituire nei territori vicini, dalla bassa provincia di Salerno fino in Basilicata, grancie e feudi, come a Sala Consilina che in 1.500 ettari di spazio, nacque la grancia di San Lorenzo, o come a Pisticci, che fu istituita quella di Santa Maria.

Caduti i Sanseverino nella metà del Seicento con la congiura dei baroni, i loro possedimenti andranno ai monaci certosini di Padula, divenendo così loro stessi anche padroni dei terreni su cui si sviluppava il paese soprastante. Disponendo così di proventi derivanti dalle tasse che i civili pagavano al priore, oltre che delle ricchezze che la certosa aveva accumulato nel corso dei secoli, tramite donazioni, profitti commerciali e quant'altro, si avviò per tutto il XVII e XVIII secolo il periodo di massimo splendore per il complesso di San Lorenzo.

I rimaneggiamenti cinquecenteschi si ripresero così nel corso del Seicento e per quasi tutto il Settecento. Essendo stati questi decisivi e numerosi, fecero sì che un sito nato in stile gotico assurse a diventare ben presto uno dei simboli della cultura barocca nel regno di Napoli. Il florido periodo artistico ebbe così ripercussioni positive anche sotto il profilo commerciale oltre che spirituale-politico, tant'è che nel 1771 si registrò addirittura la presenza di ben 195 lavoratori, dove metà di essi circa erano persino salariati.

Durante questi due secoli, il sito fu inoltre ancora una volta ampliato: risultano a quest'epoca infatti diversi corpi di fabbrica, come il chiostro grande, il refettorio e lo scalone ellittico del retro che, datato 1779, è di fatto l'ultima opera architettonica della certosa, prima della soppressione dell'ordine per mano dei francesi.

Nel 1807, durante il decennio murattiano, l'ordine certosino fu soppresso ed i monaci della certosa, così come tutti quelli del regno, furono costretti a lasciare lo stabile, che invece fu destinato a diventare una caserma. Seguirono all'evento furti di svariate opere d'arte: testi storici in biblioteca, ori, statue, argenti e pitture, in particolar modo dentro la chiesa, la quale fu spogliata del tutto dalle tele seicentesche che possedeva. Nel 1813, anno in cui avvenne l'ultimo trasferimento di opere della certosa al museo Reale di Napoli, si registra lo spostamento da un luogo all'altro di 172 dipinti.

Passato il periodo napoleonico, con il ripristino del regno borbonico i certosini rientrarono nel complesso. Spogliati di quasi ogni bene, il peso politico che avevano nell'area circostante e nelle gerarchie dei reali fu certamente minore. Per ridare lustro al complesso furono commissionate in questo periodo alcune pitture in sostituzione di quelle rubate e collocate nel refettorio, di fatto l'unico ambiente artisticamente ripristinato.

Tuttavia, nonostante gli sforzi, i monaci non riuscirono mai più ad assumere il ruolo che avevano ricoperto nei secoli addietro.

Un luogo ricco di storia che vale una visita nel corso del 2018!

http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/la-certosa-padula