La scrittrice Veronica Cantero Burroni |
“Qualsiasi destino, per vasto e complicato che sia, consiste in realtà di un solo momento: il momento in cui l’uomo comprende per sempre chi è”. Questa frase di Borges ha lasciato tutti commossi ieri pomeriggio nel Salone A3. Forse perché la citazione arrivava dalla giovane voce di Veronica Cantero Burroni, scrittrice quattordicenne, o perché questa minuta ragazza l’ha pronunciata con una semplicità cristallina dalla sua sedia a rotelle con tanto di sistema di postura. Gli occhi vivi di gratitudine.
Veronica attraverso un breve video iniziale racconta di sé, della sua gratitudine per la vita e della sua passione per lo scrivere. Evidentemente è anche molto brava. L'ultimo suo romanzo (ne ha pubblicati 4) è “El ladron de sombras”, pubblicato in italiano col titolo “Il ladro di ombre”. Il libro ha vinto il Premio Elsa Morante Ragazzi 2016 ed è stato dichiarato di interesse legislativo dal consiglio comunale della città di Campana, dove Veronica vive con la famiglia. La giovane scrittrice racconta del suo incontro con papa Francesco dopo che le immagini di quel momento hanno commosso non poche persone nel salone. “Ho scritto questa frase sul mio libro che ho regalato al papa Francesco: ti dedico questo libro per ringraziarti di tutto ciò che mi hai insegnato. Mi hai insegnato ad usare il mio occhio di vetro e il mio occhio di carne, perché questo è un sogno per me, un sogno che oggi vivo”. Veronica spiega con l’esperienza che cosa è questo occhio di vetro. Tra i dieci e gli undici anni ha cominciato a chiedere a Dio, non il perché, ma piuttosto per quale fine gli aveva regalato una condizione così limitante: “Egli mi disse: Io ti do questo dono affinché attraverso di esso tu possa mostrare alle persone che in qualunque circostanza loro possono essere se stesse”.
Veronica lo è veramente se stessa, sta scoprendo la sua vocazione nel mondo. Narra dell’esperienza dello scrivere come di una necessità, come solo i grandi autori riescono a fare. Questo giovane gigante della fede senza pudore, senza falsi sentimentalismi, comunica della sua malattia, del dolore che spesso le provoca e dei desideri che spesso si infrangono contro la dura realtà. Confida a tutti la ragazza: “Ho iniziato a scrivere le mie preghiere personali. In loro ho riversato fino all’ultima goccia di dolore, i dubbi e le paura che mi portavo dentro. Gli ho chiesto soprattutto che mi donasse cinque cose: forza, speranza, fiducia, pazienza e pace. All’improvviso Dio si è trasformato in un amico inseparabile cui non potevo smettere di raccontare ciò che accadeva ogni giorno”.
Anche Paola Cigarini, responsabile del centro educativo João Paulo II a Salvador de Bahia in Brasile, mostra un video narrante l’esperienza del doposcuola offerto alle famiglie più povere delle favelas. Racconta della situazione tragica, soprattutto dal punto di vista educativo, del bambini e dei ragazzi del quartiere, abituati fin da piccoli a vedersela da soli. Dichiara l’educatrice: “In Brasile la vita nelle favelas è costantemente variabile”. Persistono, infatti, fattori che per noi occidentali sono scontati: avere uno stipendio, avere qualcosa da mangiare, potersi recare a scuola e trovarvi gli insegnanti. Questi sono elementi non affatto scontati e comunque instabili in Brasile per il 60% della popolazione. Il centro João Paulo II offre la possibilità ad una larga fetta di ragazzi, cinquecento al giorno, di approfondire le materie insegnate a scuola, e, per il ragazzi più grandi, di svolgere percorsi di avviamento al lavoro.
“La nostra struttura – spiega la Cigarini – è molto bella e i ragazzi la sentono propria, non si sognerebbero mai di non prendersene cura, a differenza di quello che vedo accadere nelle loro scuole, dove tutto è distrutto e gli insegnanti si chiudono a chiave in sala professori”. Come mai? La chiave di volta è nell’aver deciso di essere per questi ragazzi una presenza. Una presenza che interagisce e dialoga con loro ad un livello umano, né punitivo né lassista. Tutti gli educatori del centro prendono sul serio i piccoli ospiti, affrontando insieme a loro esigenze e problematiche che emergono in un’età tanto fragilmente esposta alla violenza del disordine delle favelas. Con tale metodo, che non è una ricetta magica, si può arrivare a rischiare esponendosi, fino ad andare a cercare dopo una marachella i responsabili casa per casa per dialogare. Con tale metodo, in una società, come quella del Brasile, in cui la mobilità verticale è abbastanza improbabile, si può affrontare il dolore di una non inclusione senza che esso diventi violenza e si può sperare che ogni ragazzo viva un futuro non del tutto determinato dei propri antecedenti, ma che egli possa giocare la propria libertà dentro la complessità della realtà.
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